- Categoria: Recensioni
- Scritto da Klaus Bundy
Jay-Z - 4:44 (recensione)
“The key to stay on top of things is treat everything like it’s your first project”: è così che il compianto The Notorious B.I.G., nell’intro della canzone “My First Song”, pontificava sul segreto della longevità artistica, una frase che l’autore del brano, Jay Z, deve aver tenuto bene a mente nel corso della sua lunga carriera, anche dopo essersi affermato – senza appello - come uno dei personaggi più importanti nella storia dell’hip-hop.
Dev’essere per forza così perché, a ventun anni da “Reasonable Doubt”, Shawn Carter sembra non voler smettere di sorprendere, nonostante la sua vita non sia più la stessa rispetto a quando scrivere rime negli studi affittati dalla Roc-A-Fella era l’attività predominante del suo già ambizioso universo. Oggi, Jay Z è una macchina da soldi che muove milioni di dollari, e la musica non è diventata altro che una sorta di passatempo per tappare i rari momenti di noia tra la firma di un contratto e l’altra.
Accidenti, ci viene da pensare: se “4:44”, il nuovo album del nativo di Brooklyn, è davvero scaturito da sessioni sfuggenti e disincantate, non osiamo immaginare che cosa comparirebbe nei negozi di dischi se il nostro passasse tutto il suo tempo dietro al microfono.
Uscito il 30 giugno scorso, “4:44” (l’orario mattutino in cui Jay si svegliò per comporre il brano dallo stesso titolo) è l’ennesima perla di una discografia straordinaria: nel caso in cui il già citato “Reasonable Doubt”, “The Blueprint” e “The Black Album” non avessero sufficientemente convinto i detrattori, ogni spada dovrà essere riposta nel fodero di fronte all’imponenza di questo autentico capolavoro, frutto della collaborazione esclusiva tra il rapper/imprenditore e No I.D., l’eccezionale produttore di Chicago che, con questo contributo, può legittimamente ambire ad un posto nella leggenda.
La musica di “4:44”, in effetti, sembra più appartenere al Kanye West di “The College Dropout” e “The Late Registration” (quello che i fans della prima ora rimpiangono con maggior ardore), e non è un caso che l’attuale consorte di Kim Kardashian consideri proprio No I.D. il suo principale mentore dietro la consolle, grazie al quale ha avuto modo di apprendere i rudimenti della composizione ricercata e retro (stupenda, ci si permetta di aggiungere) che troviamo anche nelle dieci tracce di questo album.
Per ammissione dello stesso compositore, l’iconico “What’s Goin’ On” di Marvin Gaye (1971) è stato il disco che più ha ispirato il suono della musica scelta per confezionare il lavoro, e in un periodo di stagnazione culturale come quello attuale, il ritorno alle radici black – per bocca, tra l’altro, di un peso massimo – può soltanto far bene alla scena hip-hop, e ci auguriamo sinceramente che l’invito di Hov a riportare il discorso identitario al centro del dibattito sia accolto a braccia aperte da chi di dovere.
Nessuno, d’altra parte, teme davvero che le sentenze di Jigga restino inascoltate, e l’aneddotica storica è lì a dimostrarlo: quando egli parlò di lasciare nell’armadio i baggy clothes e cominciare a dar maggiore importanza all’eleganza (nella traccia “Change Clothes”, del 2003, con Pharrell Williams), i rapper attuarono quasi istantaneamente quel cambiamento di look che oggi è diventato prassi; ancora, quando le radio presero a mandare in onda “D.O.A. (Death of Autotune)”, tratta da “The Blueprint 3” (2009) e prodotta – guarda caso – proprio da No I.D., il software venne mandato in pensione per un bel po’, prima di ricomparire in seno al recente fenomeno trap.
Ma quali sono, dunque, i contenuti a tinte evangeliche che artisti e comuni mortali dovrebbero assorbire e fare propri, a questo giro?
Sono forse due le parole che meglio riassumono i concetti esposti nel disco: coscienza e consapevolezza.
La coscienza è quella tipica dell’uomo maturo, nel pieno delle proprie facoltà intellettive e fisiche, che ha imparato a distinguere il bene dal male e ad ammettere i propri errori, lasciando l’ego a prender polvere in soffitta e concentrandosi su ciò che conta davvero nella vita: è quanto Jay ci racconta in canzoni come “Kill Jay Z”, “Smile” e “Legacy”, contraddistinte da un retrogusto nostalgico che non si limita a rendere passionali le vicende dell’uomo, ma trasforma ogni locuzione in aforisma, legittimando i temi trattati attraverso la sontuosità dell’incomparabile esperienza.
La consapevolezza, invece, abbraccia il discorso intellettuale per il quale i cultori del genere si lanciano quotidianamente in instancabili crociate, trovando con sollievo un valoroso alleato proprio in Jay Z, che nelle tracce “The Story of O.J.”, “Family Feud” e “Moonlight” pare voler vestire i panni di un Malcolm X del XXI secolo, ligio nello snocciolare storie ed insegnamenti tratti dall’enorme catino del background afroamericano, nonché severo nel tracciare un percorso ideale sul quale il popolo nero possa marciare senza il pericolo di distruggere la propria credibilità.
È davvero difficile raccontare “4:44” per quello che è, e forse l’enorme hype con cui è stato accolto da tutti è sintomatico dell’immediato impatto che esso sta già avendo sulla comunità hip-hop: Jay Z, ormai intoccabile dall’alto del suo trono, muove lo scettro e parla alla sua gente con la sicurezza che solo i grandi sanno trasmettere, ed è per questo motivo che l’innegabile bellezza delle melodie non deve sminuire l’incredibile forza del messaggio che da essa sfocia.
Se Kendrick Lamar rappresenta il presente e il futuro del rap conscio, Jay Z ne tratteggia l’universalità del messaggio, esaltando il sistema dogmatico che fa del rap una scuola di pensiero a tutti gli effetti, ed ammonendo con vigore chi ne fa soltanto una mera questione di musica. Perché così non è.