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  • Categoria: Back In The Dayz
  • Scritto da Klaus Bundy

Il valore sommerso dell'underground

Rap_underground

Negli ultimi vent’anni, l’universo hip-hop ha testimoniato una vera e propria rivoluzione mediatica, diventando parte integrante di quel mondo patinato e fittizio tanto caro al brufoloso e superficiale pubblico di MTV.

Con l’avvento dell’era “bling-bling” ed il tosto lavoro di marketing svolto da Puff Daddy & Co., la musica rap è diventata improvvisamente accessibile a tutti, più di quanto non fosse già stato in grado di fare Tupac con la sua “California Love” o MC Hammer ai tempi di “U Can’t Touch This”.

Fino a quel momento (parliamo della seconda metà degli anni ’90), il rap era visto sotto una luce diversa: si trattava di una forma espressiva ancora vincolata entro i canoni del gusto cari alla comunità nera, mentre la piazza bianca popolare non aveva mai mostrato un reale interesse nei confronti della cultura, limitandosi a muoversi sulle note di un qualche pezzo orecchiabile, di tanto in tanto, lasciandosi sedurre magari dalla trasgressione fine a sé stessa.

Dopo la morte di Biggie, la grande industria musicale sembrò improvvisamente pronta ad accogliere a braccia aperte una versione plastificata del rap, impacchettata in modo da poter risultare gradevole agli occhi e alle orecchie dei giovani borghesi della middle class americana, sintetizzando (e spesso storpiando) i caratteri principali dell’hip-hop con l’aiuto ed il benestare di chi avrebbe dovuto difenderne l’integrità.

Lo splendore raggiunto dalla Death Row Records di Suge Knight, tra il 1992 ed il 1996, aveva lasciato intendere che il rap potesse trasformarsi in un’eccellentissima forma di lucro, prendendo ad esempio l’esperienza della Interscope di Jimmy Iovine e Ted Field, che si salvò dal fallimento e tornò con forza nei giochi grazie al contratto di distribuzione ottenuto per “The Chronic” di Dr. Dre.

Fu probabilmente allora che le major discografiche, come detto, si resero conto del potenziale economico del rap, e l’idea che il movimento hip-hop potesse trasformarsi in un’enorme carrozzone di giocolieri e pagliacci si trasformò ben presto in un autentico modello, di cui ancora oggi possiamo verificare gli effetti su chi si reputa “fan”.

Che il rap possa essere accessibile a tutti è un sacrosanto diritto, anche perché predicare la ghettizzazione sarebbe inutile, oltre che controproducente: come i Nirvana, a loro tempo, mostrarono al movimento punk che non c’era nulla di sbagliato nell’esibirsi per le grandi platee, così i pionieri della vecchia scuola - molti dei quali accasati presso dal Def Jam di Russell Simmons e Rick Rubin - concentrarono fin da subito le loro forze al fine di rendere appetibile a chiunque il loro lavoro, pur senza snaturarne gli elementi più puri.

E’ proprio su questo punto che, alle soglie del nuovo millennio, si è assistito ad una vera e propria rivoluzione: il sacrificio dei dogmi al servizio della monetizzazione.

Questo tipo di trend, successivamente, ha finito per avere la meglio ed oggi ascoltare la radio o guardare le rotazioni di MTV senza provare un senso di disagio è da considerarsi un’impresa non indifferente. Per questo motivo, oggi più che mai, risulta fondamentale riscoprire il ruolo centrale che occupa il circuito underground del rap.

A prima vista può sembrare un ossimoro, ma la verità è che il rap underground costituisce oggi probabilmente l’unica àncora per i seri cultori hip-hop, poiché è lì che è possibile trovare al suo posto ogni singolo pezzo del mosaico: mentre il mainstream si perde nelle rime di pochi geniali artisti e tantissimi figuri di cui potremmo fare tranquillamente a meno, i rappresentanti dell’underground tengono fede alle radici, proponendo il lato più crudo - ma anche più autentico - della nostra cultura.

Il motivo? E’ presto detto, e vale per chiunque si tenga fuori dall'ecosistema milionario: mentre un rapper il cui disco scala la classifica Billboard deve rispondere della sua opera alla major che l’ha scritturato (e che giudica la bravura in base ai numeri), un rapper che pubblica presso una “indie” (così sono chiamate le etichette indipendenti, senza la copertura dei grandi gruppi) dovrà rispondere solo ed esclusivamente al suo pubblico, perché le limitate strategie promozionali della sua etichetta non riusciranno a fare breccia nel bacino d’utenza di prima fascia, ed il rapper sarà quindi costretto ad assicurarsi l’affetto di ogni singolo fan, uno per uno, facendosi apprezzare per la sua autenticità ed il suo talento.

In parole povere, mentre una grande label può trasformare anche un pezzo di legno in un’icona, una indie non ha questo potere, e tutto sta nella capacità di chi ci mette la faccia.

Questo discorso, tuttavia, potrebbe allargarsi al punto di aprire una discussione su come funziona il mercato discografico, ma ci sarà modo di parlarne, eventualmente, in un altro articolo; ciò che è importante, per il momento, è rendersi conto che la probabilità di trovarsi di fronte ad un grande artista è paradossalmente più alta nel mondo di nicchia dell’underground, contro la mera e scialba “immagine” promossa nella maggior parte dei casi da chi muove le pedine sullo scacchiere internazionale.

Il detto “il vero rap non lo si ascolta in radio” è sostanzialmente veritiero e dare il nostro supporto agli artisti che questa cultura la predicano davvero è un passo importante verso la purificazione dell’aria inquinata di questi tempi. Sperare che l’underground possa diventare mainstream è una secca utopia, ma se tutti facessimo lo sforzo di andare a cercarci ciò che intendiamo ascoltare senza aspettare che sia MTV a dirci quale direzione prendere, forse l’hip-hop potrebbe non considerarsi “morto”, come sosteneva Nas una decina d’anni fa.

 

Klaus Bundy
Author: Klaus Bundy
"I came to overcome before I'm gone, by showing and proving and letting knowledge be born" (Eric B. & Rakim).