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  • Categoria: Back In The Dayz
  • Scritto da Klaus Bundy

Io sto con Suge Knight

SUGE_KNIGHT

Ogni volta che si parla di Marion “Suge” Knight, quasi automaticamente, si fa strada nei cuori delle persone un sentimento di scetticismo, misto ad odio e malriposto rancore, che tende ad inquadrarlo come uno dei personaggi più negativi e vergognosi della storia del rap.

Sono tantissime le persone che, pur non conoscendo in maniera approfondita la sua storia personale e lavorativa, si schierano dalla parte dei detrattori, affibbiandogli molto spesso un’accusa che ormai, pur senza alcun fondamento concreto, pare esser diventata verità storica: quella di aver ucciso Tupac Shakur.

In realtà, questo atteggiamento così ostile nei confronti dell’ex patron della Death Row Records non fa altro che mettere ingiustamente in ombra i suoi enormi meriti, che vanno oltre i confini musicali ed abbracciano addirittura importanti aspetti della storia sociale degli afroamericani.

Se non fosse stato per Knight, infatti, il mondo non avrebbe avuto la Death Row, e solo Dio sa a chi si sarebbe potuto rivolgere Dr. Dre per la pubblicazione del suo album solista di debutto, in un’epoca – i primissimi anni ’90 – in cui le autorità governative stavano cercando di trattare con il pugno di ferro la proliferazione dell’industria gangsta rap, sulla scia dell’incredibile successo ottenuto dai sovversivi N.W.A.

Incappato in una serie di problemi legali che ancora lo tenevano legato alla Ruthless Records di Eazy-E e Jerry Heller, Dre non sarebbe quindi stato in grado di mettersi in proprio (come avrebbe poi fatto nel 1996, quando fondò la Aftermath Entertainment) e la sua carriera avrebbe potuto conoscere un dannosissimo stallo, se Suge non gli avesse fornito tutta la protezione ed i soldi necessari per chiudersi in studio e regalare ai posteri il rivoluzionario “The Chronic”.

Allo stesso modo, è molto dubbio che la stella di Snoop Dogg sarebbe stata in grado di splendere nel modo in cui fece nel ‘93, all’epoca dell’uscita di “Doggystyle”, disco con il quale il rapper di Long Beach ridisegnò la scena hip-hop della West Coast e ne permise un’evoluzione stilistica che ancora oggi macina proseliti.

Snoop – a differenza di Dr. Dre, che era già diventato famoso con gli N.W.A, qualche anno prima – fu letteralmente concepito tra le mura degli uffici della Death Row, al 10900 di Wilshire Boulevard (a Beverly Hills), e fu sempre grazie alla mano benevola di Knight se il rapper riuscì a scrollarsi di dosso un’accusa alquanto spinosa di concorso in omicidio, poiché assistito dall’esperto avvocato della label, l’enigmatico e controverso David Kenner.

E quale sarebbe stato, poi, il futuro dello stesso Tupac, se Suge non si fosse rimboccato le maniche per raccogliere i soldi destinati al pagamento della sua cauzione, donandogli quindi la libertà provvisoria dopo quasi un anno di detenzione?

Il 1° dicembre 1994, in seguito ad un’accusa di violenza sessuale, il giudice Daniel P. Fitzgerald aveva condannato Shakur in primo grado ad una pena che poteva andare dai 18 mesi ai 4 anni e mezzo, con la possibilità di appellarsi alla sentenza ma fissando la quota per la scarcerazione a 1.5 milioni di dollari, spesa che il figlio di Afeni – il cui patrimonio era già stato prosciugato dalle spese legali – non poteva permettersi.

Contrariamente alla credenza popolare, non fu Suge Knight a pagare i soldi della cauzione di Tupac; tuttavia, il barbuto boss della Death Row strinse accordi sottobanco con l’Atlantic Records (che verso 850 mila dollari) e la Interscope Records (che ne versò 250 mila), promettendo la restituzione delle cifre attraverso la cessione delle royalties ricavate dalla vendita dei dischi che Tupac avrebbe registrato per l’etichetta californiana (“All Eyez on Me” e “The Don Killuminati: The 7 Day Theory”)*.

Ciò che quindi Suge Knight diede ai vari Dr. Dre, Snoop Dogg e Tupac fu sostanzialmente una piattaforma sulla quale esprimersi in piena autonomia, un ombrello sotto cui proteggersi dalle scroscianti invettive del sistema politico americano, volte a far tacere la stridula e spudoratamente ribelle voce della sua gente.

Suge fu sempre in prima linea per difendere la libertà d’espressione dei suoi artisti, talvolta lottando anche contro avversari particolarmente ostici, come C. Delores Tucker.

La Tucker era un’attivista di schieramento democratico, la cui quasi cinquantennale carriera fu segnata sul finire del secolo dalla crociata lanciata nei confronti delle canzoni rap (soprattutto quelle prodotte dalla Death Row Records), che la donna considerava contrarie al buoncostume e degradanti verso la dignità femminile.

Nonostante il rispetto che si può nutrire per una signora che marciò al fianco del reverendo Martin Luther King, Jr. per le strade di Selma nel ’65, è necessario far luce sul reale e meschino scopo di questo personaggio, ben lontano dal desiderio di moralizzare l’industria dell’intrattenimento (già, di per sé, un’iniziativa contestabile), ma soltanto smanioso di farsi un nome nel mercato discografico, notoriamente serbatoio di capitali a sette ed otto zeri.

Già azionista della Time Warner, la Tucker riuscì a convincere i dirigenti della label ad investire circa 80 milioni di dollari nell’assurdo progetto di fondare una casa discografica di sua proprietà, che si sarebbe occupata di vendere al pubblico la musica della Death Row Records dopo un’attenta analisi dei testi.

Convinta che Suge avrebbe accettato l’imposizione di un controllo che avrebbe trasformato le canzoni di Dr. Dre e Snoop Dogg in filastrocche per bambini, l’attivista attese l’imprenditore per oltre cinque ore presso la villa della cantante Dionne Warwick (anche lei sostenitrice della campagna censoria) insieme a Michael Fuchs (vice presidente della Time Warner, oggi produttore esecutivo della HBO) per firmare l’accordo finale: inutile dire che Knight non si presentò mai.

Ciò che Suge fece, al contrario, fu denunciare la Tucker per aver cercato d’interferire nei vincoli contrattuali tra la sua impresa e la Interscope Records, quest’ultima distributore esclusivo dei prodotti targati Death Row da quando la Time Warner – ancora spinta dalla sua anziana azionista – aveva rinunciato alla propria partecipazione nella società di Jimmy Iovine e Ted Field.

Queste storie non vengono spesso citate negli articoli che riguardano Suge Knight, ma è normale: le buone azioni non fanno mai notizia quanto quelle negative, specialmente se stiamo parlando dell’uomo che sedeva al fianco di Tupac la notte del suo assassinio.

Quella che Suge avrebbe orchestrato l’attentato a Tupac, parliamoci molto chiaramente, è una delle invenzioni più ridicole che l’universo hip-hop abbia mai conosciuto, ed è legata a doppio filo ad una disarmante disinformazione, che premia le dinamiche fittizie di Hollywood a discapito della tangibilità dei fatti: se è vero che i comportamenti intimidatori del fondatore della Death Row non l’hanno mai fatto certo passare per un santo, è anche vero che nessun’azione processuale gli ha mai riconosciuto il benché minimo coinvolgimento nella morte del carismatico rapper di East Harlem, tenendo anche conto di quanto insensato sarebbe stato da parte sua portare a compimento l’azione criminale proprio mentre si trovava in macchina con lui, esponendosi ad un rischio smisurato ed inutile. I moventi ipotizzati, tra l’altro, non stanno oggettivamente in piedi.

Negli ultimi mesi, poi, qualcuno ha visto in Suge il fantomatico killer che, armato di siringa (!), avrebbe iniettato ad Eazy-E il virus dell’AIDS; quest’ultima accusa è addirittura troppo bislacca per meritare una risposta articolata, e basterebbe leggere il mea culpa redatto da Eazy alla vigilia della sua morte per capire la reale causa della sua infezione, senza ulteriori infiorettature complottistiche.

Detto questo, nessuno vuol far credere che la condotta morale di Suge Knight sia immacolata, ma atteniamoci alla storia: tra tutti gli impresari che hanno trattato la musica rap ad alto livello, Suge è stato quello che, più di tutti, ha combattuto perché l’indipendenza intellettuale fosse garantita a coloro che lavoravano per lui, consentendogli di far arrivare il proprio messaggio alle masse senza dover accettare compromessi con gli squali del business.

E’ indubbio che i soldi e la fama, ad un certo punto, l’abbiano confuso, facendolo sprofondare lentamente in un abisso dal quale ancora oggi non è riuscito ad uscire; tuttavia, l’esser stato a capo della più potente casa discografica di tutti i tempi (e, per di più, di proprietà esclusiva afroamericana) dovrebbe far riflettere sull’effettivo acume di quest’uomo, che fu ovviamente attratto dal guadagno ma altrettanto consapevole di poter dare un gigantesco contributo all’emancipazione della sua gente, finalmente padrona del proprio destino sul piano professionale poiché legittimata dallo sconfinato talento.

Separare l’uomo dai suoi affari, pertanto, è d’obbligo: sotto questo punto di vista, ad esempio, potremmo dire che fu molto più infamante ciò che fece Jay-Z ai tempi del collasso dell’impero Roc-A-Fella, quando assunse la presidenza della Def Jam e finì per controllare autonomamente la sua label, tagliando fuori e lasciando in braghe di tela gli altri due fondatori, Damon Dash e Kareem “Biggs” Burke.

Jay-Z, però, è osannato nei quattro angoli del globo, mentre il nome di Suge Knight incontra regolarmente svilimento.

A dieci anni dal fallimento definitivo della mitica Death Row Records, quindi, sarebbe ora di cominciare a pensare in maniera differente e rivalutare la figura di Suge Knight, riconoscendogli il posto che merita nella storia dell’hip-hop: quello di un uomo che ha commesso tanti e gravissimi errori (per alcuni dei quali sta ancora pagando), ma che ha avuto la determinazione di mettere la propria capacità manageriale al servizio di una giusta causa, permettendo ad un’intera comunità (quella di colore) e ad un movimento (l’hip-hop) di compiere passi da gigante verso la conquista del pieno e sacrosanto riscatto sociale.

 

*I restanti 300 mila dollari necessari furono pagati allo Stato di New York attraverso la formula del bail bond, un sistema molto simile alla rateizzazione.

 

Klaus Bundy
Author: Klaus Bundy
"I came to overcome before I'm gone, by showing and proving and letting knowledge be born" (Eric B. & Rakim).