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  • Categoria: Back In The Dayz
  • Scritto da Klaus Bundy

Hip-Hop e politica: l'eterno dibattito

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Mentre la presidenza di Barack Obama si dirige lentamente verso la sua conclusione, l’America ha già da tempo cominciato a domandarsi quale sia l’eredità lasciata dal primo uomo nero ad essere eletto alla Casa Bianca.

In questo senso, l’hip-hop rientra a pieno titolo nel dibattito, ed è proprio durante questi ultimi otto anni – dal giorno dell’insediamento di Obama – che la posizione del movimento rispetto ai grandi temi politici ha assunto un’importanza notevole. Da una parte, si sono schierati i più fedeli discepoli delle credenze occulte, che credono nell’irrilevanza di chi sieda nell’ufficio ovale e sostengono la lotta continua nei confronti di un sistema corrotto e razzista, quello americano, che ancora ha nostalgia del Ku Klux Klan e delle piantagioni di cotone; dall’altra, invece, si trovano gli speranzosi, ovvero coloro che hanno visto nell’elezione di Obama un segno di emancipazione razziale senza precedenti, uno spiraglio di cambiamento dopo secoli d’ingiustizie impunite.

Il pensiero apolitico, per definizione, non fa parte delle basi del pensiero culturale hip-hop: nascendo proprio da una cattiva gestione sociale ed evolvendosi attraverso il risultato di politiche diseguali e scellerate, non possiamo pensare ad esso come qualcosa di distaccato, facente parte di una realtà astratta e lontana. L’hip-hop si nutre della politica nelle sue forme più radicali, cercando di spingere le masse verso la più profonda consapevolezza ed innescando quello stesso fuoco sacro che ha permesso alla fazione nera di conquistare alcune importantissime vittorie, ben prima che il movimento nascesse ufficialmente: il riferimento corre alle lotte per i diritti civili, agli scioperi e a tutti quei boicottaggi che hanno permesso, ad oggi, di appianare molte delle mostruosità che l’ignoranza bianca popolare ha perpetrato per tantissimo (troppo) tempo.

Tuttavia, considerare quest’ultimo capitolo chiuso sarebbe un errore: nonostante gli ottimi risultati ottenuti, l’America soffre ancora tantissimo del pensiero conservatore, ancora molto vivo in tutti quegli stati del sud che non hanno mai abbandonato veramente l’idea di una selezione darwiniana spietata, secondo la quale i bianchi occuperebbero un posto di rilievo – sotto tutti i punti di vista – rispetto ai neri.

L’hip-hop, comunque, non ha un unico colore politico, e questo non deve mai essere dimenticato. Cercare di dare un nome al suo schieramento è errato e fuorviante.

Malcolm X predicò panafricanismo e nazionalismo nero per la maggior parte della sua vita, ma si ritrovò anche nella posizione di dover trattare con il partito nazista americano per una sorta di accordo di “non belligeranza”; Martin Luther King, Jr., prima di X, intavolò discussioni con l’allora candidato alla presidenza John Fitzgerald Kennedy, di colore democratico, ritenendolo più idoneo e sensibile ad affrontare la questione del razzismo rispetto al repubblicano Richard Nixon, il quale sarebbe comunque diventato presidente a fine anni ‘60.

Tendenzialmente, potremmo azzardare la considerazione che la comunità hip-hop abbia sempre guardato con più fiducia al partito Democratico, storicamente più progressista ed attento al welfare sociale (equivalente della nostra ala sinistra), mentre il conservatorismo più o meno moderato dei repubblicani non è mai entrato (comprensibilmente) nelle corde della popolazione di colore.

Allo stesso tempo, però, alcuni elementi dal nido repubblicano sono stati adottati: il potere d’impresa del singolo e la libera circolazione delle armi sono battaglie che il movimento hip-hop ha fatto proprie sin dagli albori, anche se queste sono sempre state nell’agenda dei più ferventi esponenti di fede conservatrice. Il Black Panther Party, durante la sua breve vita, ha avuto modo di proporre una sorta di mix tra il pensiero destro e sinistro americano, battendosi per il riconoscimento dei diritti fondamentali dell’uomo (Huey P. Newton ipotizzava un’apertura dello stato nei confronti degli omosessuali già negli anni ’60) ed ugualmente vigoroso nel ribadire il proprio diritto alla difesa – attraverso il possesso di un’arma da fuoco – invocando il controverso quinto emendamento.

In tempi più recenti, fu la disastrosa amministrazione di George W. Bush a scatenare aspre polemiche (e, va detto, non solo da parte degli afroamericani), ed il simbolo di quegli otto anni fu probabilmente la frase che disse Kanye West, in diretta nazionale, in occasione della campagna solidale per le vittime dell’uragano Katrina: “George Bush doesn’t care about black people”.

Con l’elezione del prossimo presidente della repubblica alle porte, Donald Trump ha fatto riscoprire molto di quell’odio per il bigottismo che gli afroamericani (e molta dell’America, a dire il vero) pensavano di aver sepolto già con la fine del mandato di Donald Reagan.

Nessuno sa cosa prospetta il futuro, ma l’impegno sociale continuerà certamente a non mancare.

Power to the people.

 

Klaus Bundy
Author: Klaus Bundy
"I came to overcome before I'm gone, by showing and proving and letting knowledge be born" (Eric B. & Rakim).