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  • Categoria: Back In The Dayz
  • Scritto da Klaus Bundy

Fa' la cosa giusta di Spike Lee: un manifesto politico nero di fine anni '80

Spike_Lee_Fa_La_Cosa_Giusta

Quando si tratta di cultura hip-hop, com’è normale che sia, il primo pensiero corre alla musica rap, da sempre megafono e portavoce più autorevole (ma lo è ancora veramente?) del movimento che tanto amiamo.

In realtà, l’arte musicale non è l’unica a rappresentare i sogni, le speranze o – più in generale – i pensieri di questa enorme macchina dai vividi tratti politici, che dalla notte dei tempi cerca di smuovere le coscienze, non solo della popolazione afroamericana, ma di tutti coloro che non vogliono chinare la testa omertosamente di fronte all’ingiustizia che affligge ogni angolo del mondo, a suo modo, in ogni momento.

Proprio a quest’ultimo proposito, oggi vogliamo citare la settima arte: i film, infatti, sono da sempre conosciuti come uno straordinario veicolo di propaganda (Joseph Goebbels ne esaltò ogni potenzialità, rendendo la Germania nazista ancor più gloriosa agli occhi del suo popolo), e sono relativamente pochi, a ben guardare, quelli che hanno rivolto la propria attenzione verso le pellicole che hanno trattato la questione sociale dell’hip-hop da un punto di vista visivo e non soltanto sonoro.

Jim Morrison sosteneva che, per un fatto di sensazioni astratte e di tempo materiale, un film – seppur grandioso – non fosse in grado di suscitare nel pubblico la stessa reazione di un brano musicale. Non volendo sindacare sulla veridicità o meno di quest’affermazione, è altrettanto importante sottolineare quanto anche l’enigmatico frontman dei Doors fosse assolutamente affascinato dal ruolo che occupa il cinema nell’anima di ogni uomo, in particolare di quelli sensibili alle emozioni sprigionate dalla tangibilità dell’arte (egli stesso, d’altronde, fu attore, durante la sua breve ed intensa vita).

Tutti conoscono Spike Lee: alcuni lo seguono religiosamente fin dai suoi primi lavori, mentre altri lo accostano in modo più istantaneo al colorito personaggio che siede ai bordi del parquet del Madison Square Garden, completamente vestito in arancione e blu, devoto instancabile di quei New York Knicks che, purtroppo per lui, non alzano al cielo un titolo NBA dal lontano 1973.

Al di là del suo carattere abbastanza irriverente, che lo porta spesso ad entrare in polemica con i media e con gli stessi colleghi, Spike Lee ha passato gran parte della sua carriera a riproporre sullo schermo la storia del suo martoriato popolo nero, cittadino di un paese, gli Stati Uniti, mai abbastanza ravveduto da meritarsi il perdono per i vergognosi anni dello schiavismo.

Il nome della sua casa di produzione, d’altronde, è tutto un programma, e suona palesemente beffardo: la 40 Acres and a Mule Filmworks prende la denominazione da una legge promulgata il 16 gennaio 1865 dal generale William T. Sherman, che prevedeva una sorta di “risarcimento” per gli ex schiavi neri del sud – 40 acri ed un mulo, appunto – che, tuttavia, non vennero mai assegnati in maniera definitiva a nessun nero, poiché il successore del presidente Abraham Lincoln, Andrew Johnson, ne revocò la validità, restituendo ogni striscia di terra ai precedenti proprietari bianchi.

Il cinema di Lee, scorrendo la sua filmografia, potrebbe definirsi “politico”, “sovversivo” e “ribelle”, ma dipende da che punto di vista lo si vuol guardare: per gli uomini della pelle scura residenti negli USA, nonostante ogni giudizio critico, i film del regista di Brooklyn rappresentano una sorta di manifesto della loro storia, confezionati da un uomo che, a differenza dei registi della questionabile epoca blaxploitation, conosce a fondo le più impercettibili sfumature della realtà di cui parla.

Il film di Spike Lee del quale vogliamo trattare in questo articolo è “Fa’ la cosa giusta” (“Do the Right Thing”), uscito, tra mille polemiche, nel luglio del 1989.

Senza entrare nei dettagli della trama, possiamo affermare che questo film sia il più “pericoloso” tra tutti quelli firmati da Lee, a causa della tematica centrale che presenta (l’espropriazione delle attività commerciali nere del ghetto, in favore di altre fazioni, come quella italiana e coreana) e del periodo storico in cui fu presentato per la prima volta alle platee di tutto il mondo.

Nel 1989, infatti, la comunità afroamericana si trovava stretta tra due fuochi: se, da una parte, i Public Enemy avevano appena instillato nelle più giovani coscienze il credo della lotta al potere con il loro seminale “It Takes a Nation of Millions to Hold Us Back”, dall’altra, l’America bianca non stava facendo nulla per buttare acqua sul fuoco, approfittando invece delle trattative di pace tra le gang della California (partite nel nome di un’intelligente sinergia che avrebbe dato nuovo potere politico alla gente nera, fermando lo spargimento di sangue) per soffocare con ancor più ferocia ogni richiesta d’uguaglianza, immersa in una dottrina di stampo razzista che avrebbe visto il suo culmine qualche anno più tardi, durante le rivolte di Los Angeles del 1992, in seguito al verdetto sul pestaggio di Rodney King.

Fa’ la cosa giusta”, quindi, colpì gli uomini e le donne di colore proprio mentre le circostanze li stavano già portando verso una nuova e forte presa di posizione, che non sarebbe sicuramente piaciuta ai politicanti di Washington ma che, al contempo, non avrebbe potuto essere diversa.

Di fronte a queste premesse storiche, si potrebbe pensare che le autorità governative, invece che premere il tasto della repressione, avrebbero potuto approfittare della tregua interna tra i criminali più efferati del paese per promuovere un nuovo ordine sociale, libero da pregiudizi, che avrebbe di certo trovato terreno fertile tra tutti coloro che non desideravano altro che un inedito equilibrio sul quale poter cominciare davvero a costruire.

Purtroppo, però, il razzismo è una piaga che nemmeno gli Stati Uniti di Barack Obama, dopo quasi una decade di presidenza, sono riusciti ad annientare, ed è proprio a causa di questo stupido atteggiamento discriminatorio che il messaggio inviato da “Fa’ la cosa giusta” e dall’infuocato disco dei Public Enemy fu in grado di scatenare una reazione incendiaria presso la comunità nera di entrambe le coste, ormai disillusa e ferma nella convinzione che l’uomo bianco, specie se in divisa o in giacca e cravatta, fosse il vero nemico da combattere.

Una vecchia storia, ormai, ma che in America sembra non volersi mai archiviare.

E’ curioso osservare, tra le tante cose, il ruolo ambivalente che Spike Lee affibbia in questo film ai già citati italiani e coreani: se, a tratti, queste due minoranze possono sembrare anch’esse vittime di un sistema politico sordo alle grida d’aiuto, è anche vero che l’odio latente per questi due gruppi nei confronti dei neri non è mai in discussione, e ciò è evidente nella parte finale della storia, quando Sal (gestore della pizzeria italiana presso la quale lavora il protagonista, interpretato da Spike Lee stesso), perde le staffe per la musica troppo alta del boombox di Radio Raheem ed apostrofa quest’ultimo con l’epiteto di “sporco negro”, poco dopo aver detto a suo figlio Pino, che invece non aveva mai nascosto l’odio per la gente di colore, di “voler bene ai ragazzi neri del quartiere, cresciuti con le sue pizze”.

Il vero messaggio di “Fa’ la cosa giusta”, è contenuto nell’ultima manciata di minuti prima dei titoli di coda, e riassume in modo brutalmente onesto la morale dell’intera opera: dopo aver mantenuto per tutto lo scorrimento della narrazione un atteggiamento diplomatico e quasi sommesso verso i suoi datori di lavoro, Mookie (Spike Lee) afferra un bidone della spazzatura e lo scaglia tra le finestre della pizzeria per la quale lavora, mentre le fiamme appiccate dagli amici di Radio Raheem (nel frattempo ucciso dai poliziotti accorsi sul posto, in seguito alla zuffa scaturita per via del boombox) stanno già divorando il locale.

Un gesto forte, simbolico, che racchiude tutto ciò che Chuck D e soci volevano dire in “It Takes a Nation of Millions to Hold Us Back”: è tempo di ribellarsi ed essere disposti a perdere tutto in nome della rivoluzione, di non porgere l’altra guancia dopo l’ennesimo schiaffo e di restare uniti, fosse anche l’ultimo eroico gesto prima del proprio sacrificio.

Non è un caso, d’altronde, che il boombox di Radio Raheem, prima di essere distrutto a bastonate da Sal, diffondesse continuamente la musica dei Public Enemy, facendone la colonna sonora perfetta di un film che ha di certo significato molto per la generazione nera americana a cavallo tra gli anni ottanta e novanta.

 

Klaus Bundy
Author: Klaus Bundy
"I came to overcome before I'm gone, by showing and proving and letting knowledge be born" (Eric B. & Rakim).