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  • Categoria: Back In The Dayz
  • Scritto da Klaus Bundy

22 anni fa usciva Ready to Die, capolavoro di un'onestà che manca

Notorious_BIG

Nonostante l’attenzione del pubblico, in questi giorni, sia giustamente focalizzata sulla celebrazione del ventesimo anniversario dalla morte di Tupac, oggi vogliamo parlare di un’altra importantissima commemorazione che, per i motivi sopracitati, è passata in secondo piano: il 13 settembre scorso, infatti, sono ricorsi i ventidue anni dalla pubblicazione di “Ready to Die” di The Notorious B.I.G., senza dubbio uno degli album più belli ed influenti nella storia del rap.

Nel 1994, la scena newyorkese stava timidamente rialzando la testa, dopo che la costa pacifica – quella degli N.W.A, Dr. Dre e Snoop Dogg – era stata in grado di detronizzare in un sol colpo i vari Run-D.M.C., Beastie Boys e tutti gli altri fenomeni del decennio precedente, proponendo l’irriverente gangsta rap che avrebbe fatto scuola fino a non molti anni fa.

Enter the Wu-Tang (36 Chambers)” del Wu-Tang Clan, uscito verso la fine del 1993, aveva fatto da apripista a quella che oggi è conosciuta come East Coast Renaissance, forte delle qualità carismatiche e liriche degli spavaldi componenti del gruppo, fino a quel momento l’unica voce rilevante sulla sponda atlantica, mentre le vecchie glorie faticavano a riaffermarsi nella nuova era e in California vedevano la luce capolavori del calibro di “The Chronic” e “Doggystyle”.

Dal Queensbridge, poco più tardi, emerse un giovanissimo Nas, fin da subito inquadrato come poeta dal vocabolario eccelso, che nella primavera del 1994 sbalordì la scena con il magnifico “Illmatic”, disco che riportò il liricismo al centro del dibattito filologico, raccogliendo la pesante eredità lasciata da icone quali Big Daddy Kane, Kool G Rap e Rakim.

The Notorious B.I.G. si presentò quindi al pubblico in un momento cruciale: i tempi erano maturi per mischiare ancora le carte e far esplodere un nuovo fenomeno musicale, che non solo avrebbe goduto del rispetto dei più accaniti fans ma si sarebbe anche imposto sul pubblico pop, il quale si era ormai accorto che il rap non era più una banale cantilena dei neri del ghetto, bensì un genere dalle potenzialità sconfinate.

Sotto l’egida di Puff Daddy, all’epoca fresco di licenziamento dalla Uptown Records di Andre Harrell e schiumante dalla voglia d’imporre la sua neonata Bad Boy, l’appena ventenne Biggie Smalls mise insieme i pezzi per il suo debutto, dovendo al contempo fare i conti con la cruda realtà dalla quale proveniva e a cui era ancora fortemente legato: le registrazioni di “Ready to Die”, infatti, furono intervallate da un periodo di stallo totale (a causa dei problemi di Puff con la Uptown), durante il quale il nativo di Brooklyn tornò a spacciare droga, attività per cui, non molto tempo prima, aveva anche passato un periodo dietro le sbarre di un carcere del North Carolina; a complicare ulteriormente le cose, sua madre, Voletta Wallace, scoprì di avere un cancro al seno, e la nascita della primogenita T’yanna non fu solo motivo di grande gioia, ma anche di seria preoccupazione.

In questo drammatico caos, Biggie fu in grado di registrare un’opera grandiosa, carica di rabbia e rassegnazione verso una vita che – a soli ventidue anni – sembrava avergli già tolto tutto: “Ready to Die” non è un grido disperato d’aiuto, né un diario di lucida analisi, ma la storia di un ragazzo che muove i propri passi immerso nella foschia elusiva della perdizione, in mano alla confusione che serpeggia nella mente di chi sta per mollare, di chi (come avviene teatralmente nel brano che chiude il disco) sta per puntarsi la canna di una pistola alla tempia.

In realtà, ma questo Biggie non poteva saperlo, la disperazione riportata sul disco sarebbe stata soltanto l’ultimo buio prima della rinascita, la quale sarebbe passata attraverso un successo istantaneo e planetario e che avrebbe consegnato il suo nome direttamente tra le braccia della leggenda, un’impresa al debutto riuscita a pochissimi eletti nella storia della musica moderna e contemporanea.

Dopo “Ready to Die”, quasi nessun altro disco hip-hop di successo ha saputo ritrarre in modo così fedele e cinico lo stato d’animo del suo autore, protagonista di un dramma autentico, in bilico tra la possibilità di eccellere e quella di finire giovane in una cassa di mogano; dalla prima all’ultima traccia, l’ascoltatore è costretto ad entrare emotivamente nella testa dell’autore, quest’ultimo consapevole della propria bravura ma talmente concentrato nella narrazione delle sue pene da non rendersi neanche conto di aver raccolto l’eredità dello storytelling più raffinato lasciata incustodita dallo Slick Rick di “La Di Da Di”.

E’ con rinnovato e dilaniante rammarico, tuttavia, che celebriamo il ventiduesimo anniversario di questo capolavoro: dal giorno in cui Biggie e la Bad Boy battezzarono un nuovo filone stilistico per New York e tutto l’Est, a metà strada tra lo chic ed il volgare senza inibizioni, i capostipiti delle evoluzioni successive si possono contare sulle dita di una mano, e non perché ci sia carenza di effettivo talento, ma perché l’industria musicale di oggi non è più quella di allora; l’attenzione per i dettagli, lo speziare l’ispirazione grezza dell’artista per renderla saporita al pubblico più distante e le grandi manovre pubblicitarie per pompare gli eventi sono ancora alla base di ogni ambizioso progetto artistico, ma sta sparendo quell’autenticità che faceva sentire il fan vicino al suo beniamino, una fatale mancanza che oggi davvero in pochi riescono a colmare. Sempre ammesso che ci sia la volontà di farlo.

 

Klaus Bundy
Author: Klaus Bundy
"I came to overcome before I'm gone, by showing and proving and letting knowledge be born" (Eric B. & Rakim).