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  • Categoria: Eyes On The Game
  • Scritto da Klaus Bundy

Gucci Mane è libero, ma non esaltiamoci troppo

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Gucci Mane è un uomo libero, ma non esaltiamoci troppo. Anzi, a dire il vero, non c’è proprio alcun motivo per esaltarsi.

Mentre il popolo del web, in queste ultime ore, si sta mobilitando per celebrare al meglio la scarcerazione del rapper di Atlanta, il buonsenso dovrebbe suggerirci di analizzare la situazione, la storia ed il personaggio, conoscenze fondamentali che troppo spesso, purtroppo, vengono ignorate per la maggior parte degli esponenti della nuova classe di cosiddetti “artisti”.

Redigere una biografia anche spicciola del trentaseienne Radric Davis senza risultare noiosi, in tutta onestà, è compito assai arduo; la sua storia è quella di tantissimi altri individui, provenienti dai quartieri più disagiati di ogni zona degli Stati Uniti, che scelgono di sopperire ad una vita di espedienti con la musica rap, da tempo immemore ormai veicolo di emancipazione per i giovani neri dimenticati dalle esigue e razziste politiche di welfare statunitensi.

Fin qui, sulla carta, dovremmo soltanto toglierci il cappello ed onorare l’effettiva forza di volontà che spinse il nostro – quindici anni orsono - a rimboccarsi le maniche e mettersi al lavoro per cambiare il destino della propria esistenza, ma non è il caso di lasciarsi impressionare: una storia difficile, per quanto resa in apparenza eroica dalla sua svolta catartica, non è sufficiente per trasformare un qualunque reietto in una rockstar.

Gucci Mane è emerso dal circuito indipendente, dal puro underground, attraverso un numero quasi incalcolabile di mixtape, i quali gli hanno valso l’attenzione del grande mercato discografico, nel momento in cui i baluardi dell’ultima “stirpe d’intoccabili” – quella che ha dominato fino alla prima decina d’anni del millennio corrente – si stavano ormai consegnando al pensionamento forzato, stritolati nella morsa del famigerato ricambio generazionale che costringe anche i più grandi, prima o poi, a farsi un po’ da parte.

E’ difficile valutare se l’esplosione del suo fenomeno sia legato ad un effettivo feedback da parte del pubblico o si tratti di pura e semplice saturazione commerciale, sulla scia della nuova ed ancora attuale corrente che ha visto salire sul gradino più alto del podio personaggi non certo complessi come Lil Wayne, oggi osannato con il vigore che si riserva al Padreterno ma ignorato da tre quarti del pianeta per tutta la prima metà della sua ventennale carriera.

In soldoni, Gucci Mane non è un buon rapper.

Le sue liriche peccano di monodimensionalità, poiché non mostrano alcun picco grammaticale e sono vergognosamente povere nei contenuti, come si conviene d’altronde al filone espressivo di cui fa parte a pieno titolo; inoltre, l’aver collaborato con personaggi riprovevoli (vedi la petulante V-Nasty) e l’essersi tatuato un vistoso cono gelato sul lato destro della faccia completano un quadretto già di per sé non esaltante, anche se purtroppo è bene prendere atto della non unicità del suo personaggio.

Mane, a ben vedere, incarna tutto ciò di cui i cultori del movimento hip-hop si lamentano a cadenza quotidiana: l’ossessiva esaltazione del denaro, la mancanza di valori e la banale autocelebrazione, cliché comunemente accettati nel panorama odierno, a discapito di quello che dovrebbe essere il vero scopo sociale della musica rap, la cui forza comunicativa ne ha sempre fatto un’efficace arma d’insurrezione popolare nei confronti delle autorità assenti e repressive.

I tempi saranno pur cambiati, ma che cosa resta del legame con le nobili radici?

Nessuno mette in dubbio che farsi ritrarre addobbato con anelli e collane come un albero di Natale sia motivo d’orgoglio per chi ha dovuto subire la violenza della miseria: si tratta di una vendetta saporita, senza dubbio, maturata attraverso la dedizione e la fiducia nei propri mezzi; tuttavia, siccome i parametri artistici sono obbligati a considerare anche altri aspetti di un determinato soggetto, non possiamo ridurre tutto all'elogio di un insperato riscatto sociale.

Adesso che le sbarre della prigione si sono aperte per Gucci Mane, ci ritroviamo soltanto con un altro rapper di bassa lega a piede libero.

A meno che il tempo passato in gattabuia non abbia provocato in lui un’evoluzione spirituale di titaniche proporzioni (ed una sintassi inedita, ma qua si cade nella sfera del miracolo), non dovremmo aspettarci più di quanto non abbiamo già visto oltre un milione di volte.

Senza voler mancare di rispetto alla scena hip-hop del sud degli Stati Uniti (Dio benedica i Geto Boys e gli OutKast), è proprio da quella zona che provengono molti degli autori più vuoti ed immorali di questo periodo, per una serie di ragioni storiche e geografiche di cui non dibatteremo in questa sede. Le eccezioni, come per ogni cosa al mondo, esistono, ma il protagonista del nostro articolo – ahinoi – non fa parte del gruppo di chi rappresenta una genuina anomalia.

In aggiunta a ciò, non dimentichiamo che si parla di un pluripregiudicato: l’elenco delle infrazioni e dei crimini commessi da Gucci Mane, dai primi anni duemila ad oggi, rientra abbondantemente nell’ordine della decina e contiene le accuse più disparate, dal possesso di cocaina alla violazione della libertà vigilata, dall’aggressione a mano armata alla cosiddetta “reckless conduct” (letteralmente, “condotta spericolata”).

L’ultima condanna, quella che l’ha tenuto in gabbia negli ultimi dodici mesi, era relativa ad un possesso illegale di arma da fuoco, ma non si tratta di screditare la credibilità del personaggio in base alla sconvenienza della sua fedina penale; il punto focale, semmai, riguarda l’altissima probabilità per il rapper della Georgia di finire nuovamente in galera in un futuro neppure tanto lontano, considerati – oltre alla sua naturale vocazione per l’inosservanza delle leggi - anche i numerosi processi ancora pendenti a suo carico.

Con tutti i bravissimi rapper sparsi per gli States che ancora non ricevono gli elogi e le attenzioni che meritano, potremmo anche fare a meno di entusiasmarci per un uomo che, in tutta franchezza, non aggiunge nulla a ciò che già siamo stati costretti a conoscere attraverso altri come lui, esimendosi dall’impegno di contribuire all’evoluzione artistica della cultura hip-hop, ma facendone passare l’immagine distorta, priva di sostanza e stereotipata che dà ragione a chi crede nell’insulsaggine del rap.

 

Klaus Bundy
Author: Klaus Bundy
"I came to overcome before I'm gone, by showing and proving and letting knowledge be born" (Eric B. & Rakim).