facebook  twitter  vimeo  YouTube  

Menu
  • Categoria: Eyes On The Game
  • Scritto da Klaus Bundy

Mariah Carey agli ''Hip-Hop Honors'': tributo opportuno e occasione di riscatto

Mariah_Carey_Nas

Se esiste una manifestazione hip-hop che non cade spesso e volentieri nella vergogna più rancida, uno dei pochissimi buoni esempi offertici è quello degli ”Hip Hop Honors”.

Organizzati dall’emittente televisiva VH1 e andati in onda per la prima volta nell’ottobre 2004, gli “Hip Hop Honors” hanno saputo porgere nel corso degli anni il dovuto rispetto alle vere ed intoccabili leggende della musica rap, lasciando fuori dalla porta – almeno per una volta – le piccole meteore che poco hanno a che fare con il lato più autentico ed encomiabile del genere.

Dopo una pausa durata sei anni, lo show è riemerso a luglio 2016, in una speciale edizione dedicata alle donne, durante la quale Missy Elliott, Queen Latifah, Lil’ Kim e Salt-N-Pepa hanno ricevuto le meritate ovazioni, proseguendo quindi dal nobile punto in cui la manifestazione, nel 2010, si era fermata.

Il prossimo 18 settembre, in occasione della nona edizione, sarà il turno di Martin Lawrence, Hype Williams, Jermaine Dupri e Master P, anche loro omaggiati per il distinto contributo alla causa, insieme a Mariah Carey, il cui peso discografico ne fa probabilmente l’ospite più illustre tra tutti.

Con quasi trecento milioni di dischi venduti all’attivo e detentrice di un imprecisato numero di record nell’industria, Mariah Carey è stata forse la cantautrice più importante degli anni ’90, e ripercorrere i successi della sua carriera significa intraprendere un viaggio attraverso il meglio di quanto quel prolifico decennio ha saputo offrire in fatto di musica: da “Vision of Love”, datata 1990, all’indimenticabile “We Belong Together”, uscita nella primavera del 2005, Mariah ha saputo reinventarsi continuamente e mostrare un’invidiabile longevità, che ne fa non solo una delle cantanti più dotate della storia, ma anche una perspicace artista, capace di coinvolgere ed appassionare un’intera generazione con alcuni dischi di qualità eccelsa.

Al di là delle doverose lodi, comunque, è bene sottolineare quanto l’hip-hop giochi un ruolo imprescindibile non solo nel percorso lavorativo ma anche nella vita stessa di Mariah Carey, innegabile, d’altronde, per una donna mulatta cresciuta a New York nel “ventennio infuocato” degli anni ’70 e ‘80.

Originaria di Huntington (sull’isola di Long Island) e nata dall’unione tra Patricia (bianca) ed Alfred Roy Carey (all’anagrafe Nuñez, di origini latine ed afroamericane), Mariah ha affermato di esser stata vittima di discriminazioni in gioventù per il suo background etnico, e per quanto le sue inclinazioni l’abbiano fatta approdare – quasi obbligatoriamente – tra le braccia dell’R&B più misurato, sono state diverse le occasioni in cui la diva ha condito i suoi album di collaborazioni con artisti di primaria importanza della scena rap, muovendosi con agilità in un ambiente in cui la sua predecessora, la compianta Whitney Houston, non aveva mai osato avventurarsi troppo.

In principio fu Ol’ Dirty Bastard del Wu-Tang Clan, al quale la nostra fece spazio sul remix di “Fantasy”, nel lontano 1995, per poi proseguire con una lista di variegate personalità da fare invidia ad un summit hip-hop di prima categoria: Jay-Z, Nas, Snoop Dogg, Ludacris e Bone Thugz-N-Harmony (ma la lista pare infinita) hanno tutti registrato almeno un verso per Mariah, senza dimenticare quella che è ad oggi considerata la sua miglior prova in studio, l’album “Butterfly” (1997), il cui sound è particolarmente ricco di riferimenti al genere inventato da DJ Kool Herc (Puff Daddy in persona ne curò la produzione del primo singolo, “Honey”, che ebbe un successo strepitoso).

Più recentemente, nel 2014, la Carey ha voluto rinnovare la sua promessa d’amore verso la cultura hip-hop con una stupenda canzone, intitolata “Dedicated” (in coppia con Nas) ed inclusa nel suo album di quell’anno, traccia numero tre di “Me. I Am Mariah… The Elusive Chanteuse”: si tratta di un brano malinconico, meravigliosamente interpretato, nel quale la cantante esterna tutta la nostalgia dei tempi andati (“Long lost friend from way back when Eric B. was president, tell me where the melody went…”) e che, nonostante prenda in esame un periodo piuttosto lontano, quello della seconda metà degli anni ’80 (ultimo stralcio della golden age), può perfettamente inserirsi nel contesto attuale, dominato da un senso di smarrimento per chi non si riconosce nei questionabili canoni contemporanei. “Dedicated” è, forse, la più bella canzone in onore dell’hip-hop che sia mai stata registrata da un autore che non fosse rapper di professione: un’opera al contempo struggente e celebrativa, addolorata e maestosa, tanto piena d’angoscia quanto carica di un ottimismo che s’impregna di euforia nel suo essere illusorio (“It was so real, I wanna feel that again…”).

Tutto sommato, però, oggi Mariah Carey arriva agli “Hip-Hop Honors” nelle vesti di mito in caduta libera: incapace di bissare il successo ottenuto nel 2005 con “The Emancipation of Mimi” (lavoro che segnava già un suo primo ritorno in stile dalle ceneri di “Glitter” e “Charmbracelet”, usciti rispettivamente nel 2001 e nel 2003), i successivi cinque dischi di Mariah (due compilation e tre album di inediti) hanno raccolto davvero poco, sia in termini di vendite che di elogi da parte della critica, la quale oggigiorno è quasi compatta nell’affermare che la Carey sia ormai un personaggio superato sotto tutti i punti di vista; il suo ultimo singolo, poi, pubblicato lo scorso 3 febbraio ed intitolato “I Don’t” (in coppia – ancora una volta – con un rapper, questa volta YG), ha fatto una gran figuraccia in classifica, ben lontano dalle 18 prime posizioni della Billboard Hot 100, che le valgono attualmente il secondo posto (dietro ai Beatles, con 20) nella graduatoria storica stilata dal magazine.

Se è vero che la maggior parte della buona musica non riscuote quasi mai la meritata attenzione da parte del mercato mainstream, è anche vero che la Carey, dopo aver prosperato per due decenni senza alcun problema su TV e radio commerciali, sembra effettivamente aver ormai perso lo smalto di un tempo, complici sciagurate scelte di marketing (il già menzionato “Me. I Am Mariah… The Elusive Chanteuse” avrebbe potuto fare molto meglio, se fossero stati azzeccati i singoli promozionali) e un’ispirazione talvolta mancante (“Memoirs of an Imperfect Angel”, del 2009, è stato invece verosimilmente il suo punto artistico più basso), a cui va aggiunto, per tirare le somme, un management inadeguato, con una delle personalità più controverse del settore al timone (Stella Bulochnikov, già produttrice del reality show di Paris Hilton, quell’aborto televisivo che fu “Paris Hilton’s My New BBF”) ed un pizzico di sfortuna (è ancora impressa nella memoria collettiva la gaffe rimediata dalla nostra durante il concerto dell’ultimo capodanno, quando fu il playback la vera star della serata).

Ecco, di fronte ad un quadretto desolante e quantomeno apocalittico, vorremmo sperare che questo tributo offerto a Mariah Carey da VH1 non sia un modo per ringraziarla del suo operato e allo stesso tempo archiviarla in soffitta, considerato il suo apporto esaurito senza riserve; al contrario, forse utopisticamente, ci piace pensare che quest’occasione potrà instillare in Mariah una nuova consapevolezza e permetterle di tornare a fare ciò che sa fare meglio con l’energia e le capacità per cui il mondo intero ha imparato a conoscerla. Non esiste luogo, tra tutte le terre emerse di questo pianeta, in cui il nome di Mariah Carey non sia arrivato almeno una volta, e per quanto non possiamo pretendere (fosse anche per una mera questione anagrafica) che la Carey torni ai fasti di “Hero” ed “Emotions”, ci auguriamo con tutto il cuore che dal nuovo contratto discografico, firmato un paio d’anni fa presso la Epic Records di Antonio “L.A.” Reid (già artefice dell’ultimo, grande successo di Mariah, oltre dieci anni or sono), possa venir fuori qualcosa per cui valga la pena prestare un orecchio. E se l’hip-hop, direttamente o indirettamente, avrà saputo dare una mano in questo senso, tanto meglio.

 

Klaus Bundy
Author: Klaus Bundy
"I came to overcome before I'm gone, by showing and proving and letting knowledge be born" (Eric B. & Rakim).